La legge è per l’uomo

Papa Francesco, nella conferenza stampa tenuta durante il volo di ritorno dal viaggio a Panama, il 27 gennaio scorso, ha evocato, a proposito del problema dei migranti, la prudenza, identificata come la virtù del governante.

“Sante parole” è davvero il caso di dire.

La prudenza, diceva un grande filosofo cattolico tedesco, Josef Pieper (1904-1997), è virtù che supera anche la giustizia, perché fornisce la misura concreta della moralità degli atti umani, imponendo attenzione costante ai fatti. Solo in questo modo si evita che un atto, giusto in astratto, si risolva nella più odiose delle ingiustizie.

I fatti dicono che – al netto di chi vuole venire in Occidente per delinquere o, peggio ancora, per compiere atti terroristici – tanti disgraziati si muovono dai propri Paesi perché sanno che ci sono sodalizi criminali in grado di offrire loro tutto il pacchetto. E l’esperienza investigativa dice che queste organizzazioni dirigono i traffici verso quei Paesi che, per carenza di controlli o per ambiguità normative, sono maggiormente permeabili. Ciò vale per tutti i traffici criminosi, dallo spaccio di droga alla prostituzione.

Il primo passo, pertanto, da compiere è quello di impedire che chi migra possa trasformarsi in fonte di arricchimento per i gruppi criminali dediti alla tratta di esseri umani.

A tal fine, occorre che vi siano regole condivise che puniscano la tratta e, soprattutto, vi siano misure di cooperazione giudiziaria e di polizia che contrastino e sanzionino con efficacia i trafficanti e tutti coloro che concludono accordi con tali organizzazioni.

E’ triste doverlo constatare, ma l’esperienza investigativa di questi ultimi anni ha accertato l’esistenza di intese operative intercorse tra i trafficanti a talune organizzazioni non governative[1]

Chi è in pericolo di vita va salvato e vi sono, grazie a Dio, tanti che lo fanno disinteressatamente. Ma chi davvero ha a cuore le sorti dei più deboli, non ne fa strumento di lotta ideologica.

Accanto ad una seria attività di repressione dei sodalizi criminali che lucrano sulla disperazione, il buon governo della migrazione richiede che le regole che disciplinano i flussi, l’accoglienza e la regolarizzazione vengano applicate tenendo conto della diversità delle situazioni, assicurando priorità di tutela innanzitutto a coloro che necessitano di protezione perché in fuga da guerre o persecuzioni; a tali ultime situazioni non può e non deve applicarsi alcuna restrizione, trattandosi di persone costrette ad abbandonare la propria terra poiché in pericolo di vita.

Fatta tale doverosa premessa, va, poi, tenuta presente l’assoluta peculiarità del fenomeno migratorio che ha interessato l’Europa in questi ultimi anni e che ha fatto parlare taluni  di una vera e propria grande migrazione[2], non comparabile con analoghi accadimenti del passato e, peraltro, in continua espansione, dovuta sia al proliferare di conflitti nell’area subsahariana, sia al diffondersi del radicalismo islamico, sia all’acuirsi del divario economico conseguente ad una globalizzazione finanziaria sregolata[3].

Si consideri che i migranti che hanno fatto ingresso in Europa attraverso la sola rotta del Mediterraneo, dal 2014 al 2017, sono stati circa due milioni.

E’ inevitabile, pertanto, che i profili, che pur devono restare prioritari, relativi alla tutela dei diritti fondamentali di chi lascia la propria terra, vadano necessariamente bilanciati con i diritti delle comunità che si trovano ad accogliere non semplicemente degli ospiti, ma, talora, dei folti gruppi di persone che stravolgono il volto di interi territori, minando in radice ogni, pur auspicabile, integrazione.

L’accentuazione unilaterale di uno dei due profili, quello dei diritti individuali oppure quello securitario, oltre che terreno di scontro politico, corre il rischio di far commettere delle vere e proprie ingiustizie, ovvero di non dare a ciascuno il suo, che è rappresentato sia dal necessario rispetto dovuto a chi migra, sia dall’altrettanto ineludibile dovere di tutelare i diritti di chi è chiamato non semplicemente ad accogliere temporaneamente degli stranieri, ma a fare in modo che quegli uomini che non intendono tornare nella propria terra facciano –e si sentano- parte integrante di una nuova patria. Con la conseguenza di far percepire l’ospite come nemico, e di turbare alla radice la pace sociale, che è tranquillità dell’ordine scaturente, appunto, dall’aver assicurato –o provato ad assicurare- quanto spetta a ciascuno.

Si tratta di perseguire il bene comune, che non  è dato dalla mera sommatoria degli interessi individuali, bensì dalle complessive condizioni -sociali, economiche, normative-, che consentono ad ognuno di perseguire il proprio benessere materiale e spirituale.

E le dimensioni del fenomeno sopra evocate richiedono necessariamente che tale sforzo di prudente applicazione delle regole e di elaborazione delle più opportune azioni di governo venga compiuto da tutti gli stati europei, al fine di non creare condizioni di sofferenza per talune aree, maggiormente esposte al primo impatto frontaliero.

La grande migrazione rappresenta, allora, un banco di prova ed una grande occasione per tutta l’Europa.

Un banco di prova per il quadro normativo dell’Unione Europea, che si pretende fondato sulla dignità della persona e sulla protezione dei diritti fondamentali intesa come ineludibile, cogente e, soprattutto, dal respiro sovranazionale; e che, tuttavia, proprio le dimensioni del fenomeno migratorio sembra svelarne il carattere di mera enunciazione astratta, se e nella misura in cui cede il passo a calcoli nazionalistici, tali da indurre a subordinare l’effettività della tutela della persona a convenzioni e trattati internazionali[4], nati e concepiti in circostanze ed epoche radicalmente diverse.

Ed è pure una grande occasione per un’Europa che voglia scrollarsi di dosso la cappa di una tecnocrazia senz’anima per ritrovarla davvero un’anima, che non sia però la contraffazione buonista del politicamente corretto, ma ciò che da sempre ha dato sostanza all’idea di Europa: non una mera espressione geografica, ma una visione, nutrita dalla ricerca della verità e del desiderio dell’assoluto, incarnati nel cuore di ogni uomo.[5]     

E ciò a maggior ragione se si considera che la stragrande maggioranza di coloro che fanno ingresso in Europa sono portatori di una cultura, oltre che di una visione religiosa, notevolmente distante da quella delle comunità dove tendono a stabilirsi.

Non sembrino, queste, considerazioni astratte né esotiche.

La cornice culturale, infatti, è indispensabile per elaborare una strategia, anche normativa, di lungo periodo, l’unica in grado di giungere ad una integrazione vera, che non si limiti all’accoglienza e che non significhi stravolgimento dell’identità delle nostre comunità; e sempre che si abbia ancora percezione di una identità europea o se, invece, questa non  sia avvertita come una colpa da espiare, anche attraverso una completa abdicazione, piuttosto che un vivificante confronto, con culture e mentalità diverse.

Bisogna chiedersi se i principi e i valori che hanno sostanziato la cultura occidentale possono e devono ancora guidare nelle scelte che rappresentano il fondamento delle regole indispensabili per fare di parti diverse un tutto.

Bisogna chiedersi se la laicità, ovvero la distinzione fra leggi civili e leggi religiose non debba essere considerata come una pre-condizione di un sano rapporto fra consociati –qualsiasi credo religioso essi professino- e fra questi ultimi e i governanti; se il rispetto dei diritti fondamentali, in quanto scritti nel cuore di ogni uomo, non debba mai arretrare dinanzi a nessuna aggressione, neppure se ammantata da motivazioni fideistiche; se la tutela della dignità di ogni uomo non richieda anche che vi siano le condizioni per assicurare a chi migra ed al proprio nucleo familiare condizioni di vita accettabili, che scongiurino il pericolo di una nuova ri-proletarizzazione della società occidentale, con tutti i rischi conseguenti, anche in termini di esplosione di tensioni, conflitti sociali e criminalizzazione.

E che, purtroppo, i rischi di un’apparente integrazione, fatta di ghetti multi-culturali non comunicanti, incomincino a rendersi evidenti, risulta, soprattutto, dai dati relativi ai reati commessi da stranieri, in costante e preoccupante ascesa –ovviamente se calcolati in proporzione rispetto alla popolazione italiana- in questi ultimi anni, con particolare riferimento ai delitti contro il patrimonio, in materia di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione.

La dis-integrazione del corpo sociale porta con sé guasti imprevedibili, i cui costi vengono pagati dai più deboli e vulnerabili.

Non basta, perciò, accogliere; occorre preoccuparsi, ad ogni livello istituzionale e con misure adeguate, di assicurare adeguati percorsi di integrazione, presidiati da efficaci strumenti sanzionatori per coloro che non hanno volontà di seguirli.

E non basta neppure integrare.

Vi è un ulteriore aspetto da considerare, se si vuole puntare a ristabilire condizioni di autentica giustizia nei rapporti fra i popoli, ed è quello relativo alla situazione in cui versano i paesi che maggiormente registrano fenomeni emigratori. Occorre, infatti, chiedersi per quali ragioni tali paesi hanno subito una vera e propria emorragia delle più giovani e migliori risorse umane: conflitti spesso alimentati da persecuzioni di matrice religiosa e soprattutto da gruppi fondamentalisti islamici, ma ancor più frequentemente sono le pratiche di sistematico sfruttamento economico-finanziario ad opera di compagini societarie occidentali a rappresentare le principali ragioni che spingono tanti a lasciare le proprie terre.

Poiché, come si è detto in esordio, la giustizia consiste essenzialmente nel dare a ciascuno il suo, non può dirsi giusto un approccio alla questione della migrazione se non si affronta anche il problema di come assicurare anche il “diritto primario dell’uomo di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”.[6]

Tutti siamo rimasti colpiti dalla storia del bambino annegato con la pagella cucita addosso. Di chi la colpa?  Dei trafficanti, certamente. E di tutti quelli che hanno creato le condizioni perché quel bambino finisse nelle mani dei trafficanti. Non meno responsabile è, però, chi ha affamato la terra che ha visto nascere quel bambino; e chi, in nome di una difesa solo ideologica dei diritti dell’“Uomo”, ha messo da parte i diritti degli uomini.

Carte, trattati, leggi, interessi che hanno ucciso quel bambino e i suoi sogni. E che restano il nostro incubo.


[1] Si consideri, ad esempio, quanto ha scritto la Corte di Cassazione (nella sentenza nr. 56138 del 23.4.2018) con riferimento al caso della motonave Iuventa, operante per conto di una ONG tedesca:

“(…) tale episodio faceva emergere comportamenti inequivocabilmente dimostrativi del collegamento fra i trafficanti libici e i membri dell’equipaggio della Iuventa, dato che i trafficanti avevano anche recuperato il motore del gommone durante le operazioni di trasbordo dei migranti ed avevano intrattenuto un dialogo finale con i membri dell’equipaggio della Iuventa presenti sul gommone, con saluto finale al momento di ripartire per le coste libiche: dinamica costituente l’attuazione di una vera e propria consegna concordata dei migranti dai trafficanti all’equipaggio della Iuventa”.

[2] Si veda, ad esempio: Raffaele Simone, L’ospite e il nemico. La grande migrazione, Milano 2018.

[3] Interessanti, sul punto, sono le considerazioni svolte dall’economista francese Paul Collier, che così riassume il proprio giudizio sulle dimensioni del fenomeno: “Nel prossimo futuro, la migrazione internazionale non raggiungerà il punto di equilibrio: siamo alle prime fasi di uno squilibrio di proporzioni epiche” (P. Collier, Exodus, Bari 2016, pag. 45).

[4]Si consideri, ad esempio, il regolamento di Dublino (604/2013) che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide; un principio che scarica il peso dei flussi sulle spalle dei paesi di prima accoglienza, maggiormente esposti alle rotte del Mediterraneo.

[5] Così descrive questa grande occasione Raffaele Simone nell’opera sopra citata, L’ospite ed il nemico (pag. 61): “(…) l’Europa (cioè la sua classe dirigente, i suoi intellettuali, i suoi governanti, le sue forze dell’ordine, la sua magistratura) avrebbe potuto profittare dei primi segni del formidabile urto per ripensare i propri fondamenti: per esempio, chiedersi se esista davvero qualcosa che si possa chiamare ‘valori europei’ o ‘tradizione europea’, e magari anche porsi qualche domanda radicale, come ‘Che cos’è l’Europa?’ o meglio ancora ‘Che significa per noi essere europei’?”

[6] Giovanni Paolo II, discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998.

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